La corruzione non esiste. C’è di molto peggio (la lezione di Leopoldo Franchetti).

Gli esempi in Italia non mancano. Basta scorrere le cronache dei giornali. Assessori, funzionari, dirigenti, tecnici di qualche amministrazione pubblica arrestati e denunciati per aver approfittato del loro ruolo di responsabilità per intascare le leggendarie mazzette per assegnare appalti, consulenze, incarichi etc etc al “benefattore” di turno cioè l’imprenditore che ha ricevuto il “favore” ampiamente ricompensato. Insomma come ci dicono varie ricerche internazionali l’Italia nella scala dei paesi più corrotti si classifica piuttosto bene (cioè male per il comune sentire).

Per Transaparency International l’Italia è al 69 posto su 175 (il primo è il meno corrotto, per la cronaca, la Danimarca) in buona compagnia insieme al Brasile, al Montenegro e alla Macedonia, ma molto peggio del Ruanda, dell’Arabia Saudita o del Cile.

Di solito tutti questi problemi vengono definiti come corruzione o questione morale. Nella nostra analisi tenteremo di dimostrare come il termine “macropredazione” sia più adatto.

Cominciamo dal perché la corruzione non esiste. La corruzione presuppone un originale stato di integrità, rettitudine e moralità dal quale l’uomo (o la donna) cade (si corrompe) per debolezza umana o avidità. Ma questo stato originale di onestà e moralità non c’è mai stato . Ecco perché non esiste né corruzione, né immoralità, perché non c’è mai stata una fase morale e retta. Si tratta semplicemente di una cultura “macropredatoria” che considera un suo diritto appropriarsi del bene pubblico o del bene altrui a proprio privato vantaggio.

Ma come nasce, da dove arriva questa cultura macropredatoria? Per capirlo bisogna fare alcuni, anzi diversi passi indietro (ci dispiace, ma questi ragionamenti proprio non entrano nei 140 caratteri di Twitter) e tornare a quella transizione che ha portato alla modernità. Cioè la Rivoluzione Industriale, il capitalismo, l’affermarsi di una conoscenza basata su criteri scientifici e razionali. D’altronde i problemi “culturali”, quelli veri , profondi, affondano le loro radici nella Storia ( si, proprio con la “s” maiuscola).

SOCIETÀ PREINDUSTRIALI

Le società antiche e tradizionali, in breve pre-industriali, non si dissolvono come neve al sole con l’arrivo della razionalità industriale. Frammenti di queste società, gruppi di potere, mentalità, abitudini e soprattutto la cultura possono sopravvivere al cambiamento, anzi trovare nuove ed inedite nicchie geografiche, economiche o politiche, che nell’antica e rigida gerarchia pienamente funzionante non potevano avere.

La modernizzazione, in altre parole, può aprire nuovi spazi e nuove occasioni a vecchie pratiche macropredatorie, che ovviamente si trasformano e si adattano al nuovo ambiente. Non è quindi detto che la razionalità industriale, scientifica, tecnologica si diffonda necessariamente e dovunque con una forza travolgente. Molti fattori storici, economici, politici e, nuovamente, soprattutto culturali sono necessari perché questa razionalità possa attecchire.

Come in un labirinto, il tempo (cioè la sua cultura) può continuare a perdersi nel passato senza mai riuscire a diventare veramente “contemporaneo”, a raggiungere il presente e quella che abbiamo definito come la modernità o razionalità.

UN’INCHIESTA DEL 1876

Uno degli esempi più interessanti di questo perdersi nel labirinto del tempo è raccontato da uno studioso liberale del XIX secolo, Leopoldo Fianchetti che, nel 1876, condusse una propria personale inchiesta sulle “Condizioni Politiche e Amministrative della Sicilia”.

L’abolizione della struttura feudale e baronale, la nuova legislazione italiana postunitaria che aveva sostituito l’ordinamento borbonico, il collegamento economico con il resto dell’Italia, non solo non dissolvono la cultura macropredatoria e violenta tipica delle società antiche e tradizionali, ma ne fanno sviluppare nuove inedite forme.

La modernizzazione, ci avverte Leopoldo Fianchetti, può in certe condizioni, produrre “mostri”.

La struttura sociale siciliana è stata caratterizzata, per secoli, da una ristretta classe dominante, i baroni feudali (proprietari terrieri), e da una sterminata maggioranza di miserabili dominati, i contadini, con l’esangue e sparuta presenza di quella che può essere definita, a stento, classe media o borghese (commercianti, professionisti, piccoli imprenditori).

In questo quadro tradizionale la gestione dell’ordine sociale (amministrazione e riscossione delle imposte, giustizia penale e civile, difesa da minacce esterne e interne ecc) era una prerogativa privata (e ampiamente arbitraria, nonostante codici o consuetudini ) dell’élite al potere.

Il potere, in questo tipo di società, si associa indissolubilmente alla capacità personale di usare la violenza. Una violenza che il barone feudale esercitava tramite una corte di armigeri, di “bravi” o una milizia privata. Una violenza (o più semplicemente la minaccia) che era necessaria per riscuotere le tasse, imporre corvée e servigi, far rispettare certi monopoli (ad esempio i contadini non potevano far macinare la farina che nel mulino del barone o vendere i propri prodotti al di fuori del circuito baronale), reprimere eventuali infrazioni, furti o ribellioni.

LA DEMOCRATIZZAZIONE DELLA VIOLENZA

La modernizzazione portata dall’Unificazione dell’Italia ridusse il potere dei baroni feudali, ma non dissolse la cultura della violenza privata, come fonte di autorità. Anzi i bravi e le milizie private che prima prendevano ordini solo dai baroni, diventarono indipendenti e “democratici” (free-lance per usare una parola inglese, ormai di uso comune), cioè l’accesso alla violenza si allargò, oltre la ristretta cerchia dei baroni feudali, a chiunque fosse abbastanza abile, astuto e intraprendente da sapersi servire di queste organizzazioni. Ed ovviamente l’industria della violenza agiva anche per conto proprio.

Le forme macropredatorie, almeno in questo caso, non erano un residuo della storia, ma un prodotto molto più complesso, in cui la modernizzazione giuocava un ruolo fondamentale. Naturalmente questo non sarebbe stato possibile se nella società, anche negli strati che più avevano da perdere in una simile situazione, le prede per così dire, non fosse prevalsa una cultura totalmente refrattaria all’idea di una legge uguale per tutti.

Persino le vittime, le prede, erano, infatti, convinte che l’unica autorità, anche morale, provenisse dalla capacità personale e privata di esercitare la violenza per far rispettare i propri presunti “diritti” (che in realtà sono prevaricazioni e prepotenze). Del resto chi non era in grado, in questa concezione, di farsi giustizia da solo, non era un “uomo d’onore”. Un mondo dove l’unico limite alla violenza era un’altra violenza contrapposta.

L’omertà era l’ultimo corollario di questa situazione. Non era tanto il timore di rappresaglie che impediva al cittadino di rivolgersi allo Stato e alla Legge, ma un’intima convinzione: le vere regole sociali venivano dettate dall’uomo potente e capace di violenza.

La personalizzazione dell’autorità e del potere avevano la meglio, in questa cultura, sul concetto astratto e universale di una legge uguale per tutti amministrata da un potere burocratico, anonimo e super partes. La denuncia del sopruso allo Stato e alla Legge era quindi un’infamia, un tradimento delle regole, se non formali, sostanziali della propria società. L’omertà diventava così quasi una difesa dei propri valori culturali (dei macropredatori, ma anche, paradossalmente, delle “macroprede”). Ovviamente stiamo parlando dell’inchiesta di Leopoldo Franchetti, condotta nel 1876.

PRODUZIONE E PREDAZIONE

L’analisi di Leopoldo Franchetti riguarda un caso particolare, dove una macropredazione particolarmente violenta, tipica di società antiche e tradizionali, riesce a sopravvivere ed anzi ad adattarsi, molto bene, ai mutamenti portati dalla modernizzazione.

Ma la sua lezione è più generale. Ci possono essere altre situazioni in cui sopravvive una cultura macropredatoria, cioè dove il potere viene fortemente personalizzato, ma il potente non ha bisogno di ricorrere alla violenza, per mantenere la sua posizione perché non esistono cittadini capaci di far valere i propri diritti garantiti da una legge uguale per tutti, ma sudditi, vassalli o clienti che implorano “favori”, “protezione”, un “posto di lavoro”. O anche di riparare un torto subito.

In altre parole la cultura macropredatoria presuppone un rapporto “verticale” fra potere personalizzato e cittadini (o meglio: sudditi, clientes), un rapporto modellato su quello fra il padrone feudatario e il servo, dove i concetti chiave sono fedeltà (verso il potente) e protezione (del potente verso il servo).

La cultura “macropredatoria” antica e tradizionale che riesce a sopravvivere e a prosperare nel processo di modernizzazione è, nella nostra analisi, il vero “anticapitalismo”, cioè il metodo più efficace per rallentare o bloccare la crescita economica, l’evoluzione della società e il diffondersi della razionalità e della modernità. In altri termini: il trampolino “culturale” per il tradimento della modernità.

È quindi una cultura che impedisce di far emergere le intelligenze, le energie, la voglia di fare, le idee, i progetti ma anzi reprime e soffoca i talenti e le capacità diffusi in qualsiasi popolazione umana.

Al contrario, il modello produttivo “borghese-capitalista” prevede invece la libertà di impresa, la competizione, il premio per i miglioramenti tecnologici o organizzativi ( con maggiori profitti), la mobilità sociale verso l’alto per chi ha successo ed è quindi più capace.

In questo modello rientrano anche gli aspri, e a volte violenti, conflitti sociali che oppongono “lavoratori” e “capitalisti”.

Ma, tranne che in casi eccezionali, questi conflitti stimolano la dinamica e lo sviluppo del sistema industriale.

Quelle che in genere vengono perciò definite forze anticapitaliste (cioè i movimenti, i partiti, i sindacati dei lavoratori) non lo sono affatto (almeno in questa analisi).

IL MODELLO PREDATORIO

I veri “anticapitalisti” appartengono alla cultura “macropredatoria”.

Il modello predatorio sopravvive, infatti, bloccando la competizione, soffocando le energie e talenti di chi potrebbe diventare un pericoloso concorrente. Con il monopolio di interi settori produttivi e commerciali il sistema macropredatorio rende impossibili la concorrenza e lo sviluppo tecnologico (e organizzativo) perché a nessuno è consentito di offrire beni o servizi a prezzi più vantaggiosi o di migliore qualità, grazie a invenzioni o innovazioni.

La classica concorrenza economica, in questa cultura, viene considerata una ribellione al potere macropredatorio “costituito”, o comunque una grave insubordinazione, e non può essere tollerata. Il tutto a vantaggio di una cerchia ristretta di macropredatori che, per il loro tornaconto, inceppano lo sviluppo generale. Ed ovviamente a totale svantaggio della maggioranza che non solo si trova di fronte, per le necessità quotidiane, una scelta più ristretta di beni e servizi a costi più alti e di qualità più bassa, ma che, per il blocco dello sviluppo, ha molte meno occasioni di esprimere il proprio talento, la propria iniziativa e quindi di migliorare il proprio tenore di vita ed il proprio status sociale. L’unica qualità apprezzata, nei secoli, dai macropredatori è la più cieca fedeltà ed è questo il principale criterio per consentire l’ascesa sociale.

Senza contare che in una cultura dove l’autorità e il potere sono considerati una prerogativa personale e privata, la “pubblica amministrazione” e la “res publica” vengono subito “privatizzate”, “patrimonializzate” (o non riescono a diventare a diventare pubbliche in primo luogo, ma sono considerate patrimonio privato) e sono occupate da gruppi di macropredatori (spesso in conflitto fra loro) che la usano a propria discrezione per consolidare potere, ricchezze e, in una democrazia, la propria base elettorale.

La modernizzazione ci appare così, almeno in certe aree e certe epoche, come una lotta dagli esiti incerti, fra “produzione“ secondo la razionalità capitalista e “predazione” secondo culture tipiche di società antiche e tradizionali. Sono queste culture che noi di solito scambiamo per corruzione.

PUÒ LA POLITICA CAMBIARE LA CULTURA (PREDATORIA)?

Esiste la possibilità che la politica, cioè le scelte dei governi, possa cambiare questa cultura?

La risposta che, ancora una volta, ci da Leopoldo Franchetti è chiara: sono necessarie misure per far crescere la “ classe media”. Con linguaggio moderno potremmo definire queste misure: “le riforme”. Cioè cambiamenti legislativi sistematici che stimolino la crescita di quella classe media produttiva che, con il suo numero, le sue attività, le sue iniziative, le sue relazioni, la sua crescente ricchezza, la sua cultura razionale, la sua preferenza per lo Stato di Diritto e il governo della legge, alla fine dissolvano la cultura macropredatoria. Insomma il “popolo della partita doppia”, per parafrasare una definizione alla moda, e l’imprenditorialità sono le chiavi della modernità.

E’ anche evidente che in un ambiente economico effervescente, ricco di imprese, di traffici, di commerci, di innovazione tecnologica, il controllo macropredatorio, il potere personalizzato del potente, non è più possibile, se non in aree socialmente marginali (come prostituzione, droga, lavoro in nero e altri affari illeciti).

Esiste anche la possibilità che sia la cultura, in particolare quella macropredatoria, a condizionare la politica.

Torniamo per l’ultima volta a Leopoldo Franchetti che, nella sua inchiesta del 1876, ne individua il meccanismo. Quando la cultura macropredatoria è condivisa dalla maggioranza della popolazione, o comunque da strati consistenti, il “potente” ne può controllare le scelte elettorali.

All’epoca del Franchetti l’Italia era una democrazia, ma non esisteva il suffragio universale, nemmeno quello maschile e l’elettorato era costituito da persone abbienti, cioè con proprietà o redditi di un certo valore e quindi tassabili, ma il meccanismo funziona benissimo anche con elettorati più ampi.

Nella lotta politica ed elettorale generale, l’appoggio del macropredatore locale ( che controlla i voti di vasti gruppi sociali) può rivelarsi determinante. È difficile immaginare che chi deve la propria vittoria a simili alleati, si applichi seriamente a riforme o a misure che mettano in pericolo l’influenza del macropredatore, e di riflesso, mini la propria base elettorale o una sua parte decisiva.

Lasciamo la parola a Leopoldo Franchetti: “Ma invece vediamo i Ministeri italiani di ogni partito, dare per primi l’esempio di quelle transazioni interessate che sono la rovina della Sicilia, riconoscere nell’interesse delle elezioni politiche quelle potenze locali che dovrebbero anzi cercare di distruggere, e trattare con loro.”

Quale fu allora la strategia prevalente verso la cultura predatoria della “politica nazionale” nel secolo e mezzo di Unità Nazionale?

La “politica” intesa come azione dei Governi Nazionali (o delle Amministrazioni Locali) non solo non riuscì a cambiare una cultura che non favoriva la crescita economica, ma aggravò, addirittura, la situazione.

Sia, spesso, con una tassazione feroce che non permise lo sviluppo spontaneo di nuove forze economiche (stimolate da una forte domanda di massa di beni e servizi) che, forse, avrebbero potuto dissolvere le vecchie culture predatorie, sia sfruttando quella stessa cultura a fini elettorali. Cioè cercando accordi con il macropredatore locale per averne i voti e il sostegno nel formare le maggioranze di Governo. Naturalmente una volta fatti salire a bordo simili alleati bisognava poi chiudere un occhio (o tutti e due) su certi loro comportamenti e abitudini.

Non a caso questa cultura e queste abitudini sono ancora fra noi. Non si tratta di corruzione. Ma di “anticapitalismo” e “anti-modernità” allo stato puro.

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