Da almeno due decenni nelle economie più avanzate e industrializzate è emerso un fenomeno preoccupante: la difficoltà, dopo le ricorrenti recessioni economiche, di riassorbire la disoccupazione creata da queste crisi (per non parlare di quella giovanile).
A questo allarmante fenomeno si aggiunge una tendenza di lungo periodo, in azione da almeno la fine degli anni ’80 e ben nota negli Stati Uniti. La stagnazione dei redditi della classe media, pur in presenza di un notevole aumento del PIL.
Questa frase enigmatica significa che il prodotto interno lordo, cioè la torta della ricchezza nazionale prodotta ogni anno, è cresciuta grazie agli aumenti di produttività legati alla tecnologia, ma le “fette” non sono state “ridistribuite” in modo da beneficiare il massimo numero possibile di persone. I vantaggi, le fette più grosse, sono finite in poche mani. E la disuguaglianza è aumentata. E in futuro alla disuguaglianza potrebbe aggiungersi una disoccupazione incomprimibile.
Perché? Le teorie sono molte e diverse, ma in questo libro se ne vuole analizzare una in particolare: gli effetti della tecnologia informatica, della robotica e delle telecomunicazioni.
Prima di inoltrarsi in queste analisi bisogna ricordare alcuni capisaldi. Dalla Rivoluzione Industriale fin quasi ad oggi, l’introduzione delle macchine e la progressiva automazione dell’opera manuale dell’uomo o della forza muscolare degli animali, ha permesso uno straordinario aumento del benessere e della ricchezza individuale.
Le macchine che hanno meccanizzato l’agricoltura (che in epoche preindustriali dava lavoro all’80% e oltre della popolazione), espellendo milioni di contadini dai campi, non hanno creato masse permanenti di disoccupati impoveriti. Al contrario, pur fra drammi e conflitti inevitabili in queste transizioni epocali, l’arrivo delle macchine ha fatto sorgere nuovi settori industriali, dove uomini e donne espulsi dalla agricoltura hanno trovato nuova occupazione e straordinarie occasioni di migliorare la propria condizione e quella dei propri figli.
E infatti per le teorie economiche classiche la meccanizzazione (o l’automazione) e l’espulsione di lavoratori da un certo settore “vittima delle macchine o dei robot”, non significa necessariamente maggiore disoccupazione, ma una ricollocazione di questa forza lavoro eccedente in “nuovi”settori. Il meccanismo si spiegherebbe in questo modo. La maggiore automazione permette di abbassare i costi dei prodotti.
Le famiglie o gli individui avranno quindi, grazie a quella riduzione dei costi, più reddito da spendere. Questo reddito “liberato” costituirebbe una nuova domanda capace di far sorgere nuovi settori e quindi nuova occupazione. Sicuramente le cose sono andate così con la meccanizzazione dell’agricoltura, ma questa ipotesi è un’osservazione storica (valida quindi solo per il passato) o una “legge” economica (valida, pur con tutti i limiti, anche nel futuro)?
In altri termini siamo certi che la velocità con cui la tecnologia sostituisce l’uomo è sempre pari a quella con la quale “nuovi settori” nascono e assorbono nuova occupazione (e quindi, in teoria, i disoccupati espulsi dai settori automatizzati)? Oppure i due processi possono andare “fuori sincrono” e creare quindi quella che un grande economista (M. Keynes) chiamò la “disoccupazione tecnologica”?
Con alcune grandi innovazioni tecnologiche “pervasive” e trasversali, cioè in grado di interessare e trasformare quasi tutti i settori produttivi, come ad esempio l’elettricità o il motore a scoppio, sembra che il sincrono fra la velocità di sostituzione dell’uomo e la creazione di nuovi settori industriali sia stato più o meno mantenuto. Anzi in certi periodi l’aumento dell’occupazione in nuove industrie ha superato la disoccupazione creata dalle macchine.
Ma oggi le cose sono, almeno secondo questi studi, cambiate. La parole chiave sono informatica e computer. Anche questa è un’innovazione tecnologica pervasiva e trasversale , che cioè interessa e trasforma quasi tutti i settori produttivi. Ma nei confronti delle precedenti innovazioni pervasive ha una caratteristica molto diversa. La sua evoluzione è molto più rapida. E questo può far saltare il sincrono fra disoccupazione creata dalle macchine e assorbimento di manodopera in nuovi settori.
Il punto cruciale è la cosiddetta Legge di Moore, dal nome del cofondatore della Intel che la formulò nei lontani anni ’60. Questa “legge” (che in realtà è un’osservazione empirica) dice che ogni anno e mezzo – due anni, il numero di componenti elettronici che è possibile mettere su un chip di silicio raddoppia. Fino ad oggi questa legge ha funzionato e anche per il prossimo futuro si prevede che funzionerà.
Ciò vuol dire, né più né meno, che una crescita esponenziale. Un raddoppio continuo, anche se inizialmente può passare inosservato, da una certa soglia in poi provoca un’impennata quasi verticale della crescita, nel nostro caso delle capacità di calcolo e di gestione di moli enormi di dati.
È famoso l’aneddoto dell’imperatore persiano che per ricompensare l’inventore degli scacchi e quindi della scacchiera di 64 caselle, gli chiese di decidere, lui stesso, la propria ricompensa. L’inventore chiese all’imperatore una quantità di grano calcolata in questo modo. Nella prima casella della scacchiera sarebbe stato messo un chicco. Nella seconda due. Nella terza quattro. E poi otto, sedici etc. Raddoppiando il numero di chicchi ad ogni casella. Una ricompensa in apparenza modesta e contenuta. Fino a circa metà della scacchiera la ricompensa è infatti, diciamo così, “gestibile”. Ma oltre la metà, a forza di raddoppi, le quantità superano qualsiasi immaginazione e non c’è bisogno di arrivare alla casella 64 per capire che una simile ricompensa è impossibile.
La domanda adesso è: la tecnologia informatica a che punto è della scacchiera? Oltre una certa soglia le capacità di calcolo e di gestione dati diventeranno così enormi (e a buon mercato) da rendere possibile l’automazione di processi molto complessi. Obbiettivi che solo fino a qualche anno prima sembravano il dominio della fantascienza potrebbero trasformarsi in una banale realtà.
Computer (e software) pilotano aerei, guidano auto o navi, fanno diagnosi mediche (sostituendosi ai “radiologi”), traducono istantaneamente e in modo accettabile da una lingua all’altra, compilano pareri “legali” facendo ricerche su archivi sterminati (in un batter d’occhio) e intervengono sempre più spesso in ogni genere di linea di montaggio industriale, dalle auto ai computer agli smartphone (telefonini intelligenti).
Alcuni aspirapolvere “pensanti” stanno facendo capolino anche fra le mura domestiche (roomba e assimilati), mentre la robottizzazione della guerra è ormai, da alcuni anni, un fenomeno al centro delle riflessioni degli stati maggiori militari.
Ma i robot sono già fra noi e da diversi anni, anche se non hanno l’aspetto umanoide cui l’immaginario collettivo ci ha abituato. I bancomat sono robot (o macchine automatiche), e della stessa natura sono gli apparecchi che fanno il “check in” negli aeroporti. Mentre le reti di comunicazione, in primis ovviamente internet, permettono agli utenti di saltare tutte le mediazioni, e di parlare direttamente con le macchine (o i software).
Esempi ormai comuni sono i conti correnti bancari, “trading” di Borsa, le prenotazioni di treni, aerei, alberghi etc. Tutte operazioni che richiedevano agenzie e personale specializzato che oggi sta scomparendo sostituito da macchine o programmi con dosi più o meno grandi di A.I. (intelligenza artificiale). Prossime vittime potrebbero essere, ad esempio, i cassieri dei supermercati e grandi magazzini o le librerie, tipografie, reti logistiche di distribuzione etc. (con gli e-books che viaggiano su internet).
Non c’ è bisogno di arrivare a ipotesi estreme come quelle di Jeremy Rifkin sulla “Fine del lavoro” (End of Work, 1995) o quelle di Wassily Leontief che prevedeva, per il lavoratore umano, il destino del cavallo e quindi una completa sostituzione con le macchine, per capire che basta un’automazione in grado di prendere il posto di una larga fetta di manodopera umana per finire nei guai.
Infatti un’eliminazione troppa rapida e spinta (con relativa alta disoccupazione tecnologica) potrebbe provocare un problema molto serio: una stagnazione prima e un declino poi, della domanda di beni e servizi.
Un aneddoto probabilmente falso, ma molto istruttivo, chiarisce i termini della questione. Henry Ford II sta passeggiando insieme al capo del sindacato dell’auto americano, lungo una nuova linea di montaggio, e indicando la fila di robot appena installati dice al sindacalista “E adesso chi pagherà le quote di iscrizione al sindacato?”. Il sindacalista non si scompone e risponde “E adesso chi comprerà le automobili?”.
Senza una massa di salari e stipendi adeguata in circolazione, la domanda diminuisce. Eliminare in modo massiccio la manodopera senza riuscire a reimpiegarla in nuovi settori riduce inevitabilmente, prima o poi, la domanda.
Ma se c’è un grande successo che può essere attribuito al capitalismo è proprio quello di aver saputo creare una gigantesca domanda di massa (domanda ovviamente vuol dire qui domanda solvibile, con le risorse per pagare gli acquisti), una “società dei consumi” in grado di comprare le merci o i servizi più vari.
Ed è proprio questa capacità di spesa diffusa in tutta la popolazione che ha permesso la straordinaria crescita delle società industriali. La domanda (solvibile) e la “società dei consumi” (tanto deprecata da alcuni filosofi della Scuola di Francoforte) sono insomma il motore segreto dell’eccezionale sviluppo degli ultimi due secoli.
La tecnologia informatica sta ormai arrivando alla metà della scacchiera e nel nostro avvenire automazione, robot e gigantesche reti di comunicazione sono ormai inevitabili.
La disuguaglianza crescente che si registra in molte società, ed è molto studiata negli USA, sarebbe proprio causata dall’evoluzione tecnologica che favorisce ristrette fasce della popolazione, mentre rappresenta uno svantaggio per la maggior parte. Le cose stanno veramente così?
Alcuni economisti (Raguran Rajan, Fault Lines, 2010) leggono addirittura la crisi americana, la grande recessione di questi anni, come un primo segno delle minacce che questi rapidi cambiamenti possono portare con sé. La stagnazione dei redditi della classe media (dovuta proprio all’automazione e alla scomparsa di molte figure di lavoratori) avrebbe indotto la “politica” a usare il “credito facile” come comoda terapia per far crescere la capacità di spesa/consumo altrimenti in declino (e ovviamente le proprie probabilità di una rielezione). Un terapia a base quindi di debito con effetti a breve termine, in apparenza, positivi (boom edilizio e del valore delle case nei primi anni del 2000), ma nel medio termine insostenibile (come ci siamo poi accorti).
Esiste un modo di affrontare gli aspetti potenzialmente negativi di questi cambiamenti? Le risposte date in questi saggi, articoli, libri sono varie. Alcuni studiosi indicano nell’istruzione la chiave per affrontare le minacce. Un’istruzione tutta da ripensare per renderla all’altezza della sfida dei nostri tempi. Altri invece ritengono che anche l’istruzione non sia sufficiente e attribuiscono allo Stato il ruolo di redistributore delle risorse e quindi, di sostenitore di ultima istanza della domanda. Altri ancora vedono in internet una piattaforma capace di creare infiniti “mercati” dove un’umanità di micro-imprenditori potrà vendere le proprie idee, merci o “apps” (applicazioni) a livello globale e riprendere così la via dello sviluppo.
Le idee non mancano anche se spesso sembrano astratte o di difficile applicazione.
Il pianeta dei robot che si sta profilando all’orizzonte non è dunque il mondo fantascientifico di mansueti schiavi artificiali al servizio dell’uomo, ma una sfida ai meccanismi economici che hanno garantito fino ad oggi una crescita che, pur fra crisi e fluttuazioni, è un fenomeno unico nella storia dell’uomo.